Luciano B. L.
venerdì 30 luglio 2010
31 luglio per L'AQUILA
martedì 20 luglio 2010
La realtà de L'Aquila vien così descritta da Giustino Parisse:
- una periferia caotica nata negli anni scorsi a colpi di varianti al piano regolatore,
- le 19 aree del piano Case costruite nel periodo dell'emergenza,
- migliaia di map,
- centinaia di casette "private" (spesso villette) sorte come i funghi in base a una semplice autorizzazione,
- case dello studente che vengono costruite qua e là senza apparente criterio,
- la volontà dell'università di mantenere più "poli" (Roio, Coppito, centro storico), e poi una miriade di iniziative che si stanno realizzando senza una idea di fondo capace di guardare a una strategia di medio e lungo termine.
Una città da ricostruire e da ridisegnare. E Chiodi-Cialente-Fontana che fanno? Per il 26 Luglio (dopo 15 mesi dal sisma), all'auditorium di Palazzo Silone, invitano a parlarne un pool di esperti: Vittorio Magnago Lampugnani (urbanista), Cesare Trevisan (infrastrutture), Paolo Leon (economista) ed Aldo Bonomi (sociologo). A settembre arriverà anche il portoghese Alvaro Siza y Vieira (architetto).
Fantastico. Speriamo non sia l'ennesimo specchietto per le allodole. Tuttavia, AMARCORD che:
A Chartres, due incidenti disastrosi nel 1030 e nel 1194 avevano reso completamente inservibile la cattedrale romanica. La nuova venne edificata da un ignoto architetto, sui tracciati dell’antico santuario per conservarne scrupolosamente la memoria ma in forma, concezione e tecnologia completamente aderenti al tempo. Forse la presenza del soprannaturale o, più probabilmente, una serie di fatti contingenti hanno permesso l’edificazione di questa “casa della Vergine” come la più rappresentativa del gotico ed in piena corrispondenza delle aspirazioni e delle capacità operative d’una comunità. Ebbe le coperture ad altezze mai raggiunte sino ad allora, la luminosità di nessun’altra chiesa, la pietra per la costruzione (proveniente da una cava miracolosamente scoperta vicino alla città) magnifica di colore e di consistenza. Con tutte le parti dell’organismo proporzionate “secondo la vera misura”. Con leggi oggettivamente valide, in aderenza stretta alla metafisica medievale che concepiva la bellezza come lo splendor veritatis. Infatti, proprio l’alzato della cattedrale di Chartres (per Von Simson) è la suprema dimostrazione di questa “filosofia della bellezza”.
Fu realizzata in soli 25 anni da operai specializzati chiamati compagnons, riuniti in confraternite. Ma tutti gli abitanti del borgo vi parteciparono con l’apporto d’ogni mezzo cognitivo, pecuniario e materiale disponibili.
A Milano, la travagliata costruzione del Duomo (dedicato a Santa Maria Nascente) appare ben documentata ed autorevolmente criticata nel racconto di Cesare Brandi, in “Disegno dell’Architettura italiana” (Einaudi).
La cattedrale sorse, per volere dell'arcivescovo Antonio da Saluzzo e di Gian Galeazzo Visconti, secondo un disegno d’un architetto straniero, o alsaziano o tedesco. La pianta era tardo-gotica, d’ispirazione renano-boema (Colonia, St-Vito a Praga). I lavori di costruzione iniziarono nel 1386. Simone da Orsenigo ed altri maestri lombardi, dal 1388, curarono l’edificazione dei muri perimetrali. Bensì, già nel 1389, avendo perso fiducia nei capomastri all’opera, le autorità preposte iniziarono a consultare esperti “stranieri” per discutere della capacità portante d’un pilastro e/o dello spessore d’un contrafforte e si trovarono impantanati in argomentazioni sulle proporzioni del corpo umano, ovvero su quelle dell’erigendo edificio. Inizialmente, da Parigi, intervenne Nicolas de Bonaventure per determinare la forma idonea alla sezione orizzontale dei pilastri e per i profili delle basi, delle finestre e delle porte. Dopo un solo anno il parigino lasciò il cantiere e, da Bologna, intervenne il capomastro di San Petronio: Antonio di Vicenzo che apportò una variante al numero di campate del transetto. Altri successivi cambiamenti denotano il clima di tensione (o di scoperta ostilità) tra le maestranze lombarde ed i direttori d’opera, soprattutto se provenienti dai cantieri francesi e tedeschi omologati al gotico. Al conseguente rallentamento dei lavori, contribuì altresì il dilagare della diatriba sulle proporzioni dell’edificio. Alcuni, volendo la costruzione ad quadratun, immaginavano l’intera sezione trasversale inscritta in un quadrato: in pratica, l’altezza dell’edificio pari alla larghezza totale. Altri disputavano per un profilo ad triangulum. Fu allora chiamato da Colonia Maestro Giovanni da Fernach, che declinò l’incarico. Anche Ulrich von Ensingen da Ulm rifiutò. Invece, accettò Gabriele Stornaloco, un matematico di Piacenza che soggiornò a Milano rimuginandoci su per dieci giorni. Tornato a Piacenza, inviò le sue proposte che furono ben accolte dalle autorità, ma scatenarono la riprovazione degli esponenti del “partito” avverso e, pertanto, fu ravvisata la necessità d’un nuovo giudizio. Ad esprimerlo fu Heinrich Parler di Gmünden che arrivò da Ulm nel 1391. Sostenne esser necessario tornare alla costruzione ad quadratum. Ma i meneghini non intendevano regredire dal triangolo dello Stornaloco alla costruzione al quadrato che in definitiva alzava ancor più il culmine del tetto. Gli ambrosiani (per gusto italico) preferivano proporzioni più tarchiate e volevano che l’altezza della chiesa fosse in rapporto alla sua larghezza totale come l’altezza e la base d’un triangolo equilatero. Poiché la larghezza della chiesa era ormai fissata, l’altezza doveva essere pari a 82,5 braccia. Quando, gli affezionati delle proporzioni ad quadratum propugnavano per le 90 braccia. Così il Parler fu rimandato a casa. Nel 1395, nella disputa vennero coinvolti altri due stranieri: Giovanni Mignot di Parigi e Giacomo Cova di Bruges. Dovendo costruire le volte, il Mignot intendeva seguitare nella pratica acquisita nei cantieri francesi che era già considerata “astrusa” da chi difendeva la logica delle proporzioni di Vitruvio. Secondo il francese la Fabbrica del duomo sarebbe presto irrimediabilmente crollata perché “lavoranti di serizzo”, pittori, “fabbricanti di guanti e carpentieri” s’erano elevati al rango d’ingegneri. Perciò, rimproverando agli italiani la mancanza di cognizioni statiche, Mignot sentenziò: “Ars sine scientia nihil est”. Ed i milanesi rifacendosi ad Aristotele (ed alle sue teorie sulla meccanica) risposero: “scientia est unum et ars est aliud”. Infine, assai irritati per esser stati trattati di ignoramuses, rispedirono il Mignot a Parigi a dubitare se l’architettura gotica potesse essere considerata solo dal punto di vista delle proporzioni delle membrature, ignorando ogni altro significato connesso ad una costruzione “diafana” (o permeabile alla lux mirabilis: la luce fisica caricata di significati metafisici). Tuttavia, mal fecero dacché arrivarono a “camuffare” da gotica una costruzione che voleva salvaguardare la tradizione italiana e nel contempo prestare attenzione al linguaggio che dall’Ile-de-France era dilagato in tutti i territori soggetti alla “globalizzazione” di quel tempo.
A L’Aquila, queste vicende non desterebbero interesse alcuno se non si considerasse necessario trarne una morale esplicativa d’odierni avvenimenti significativi. Giammai nel costruire nuove chiese dopo le nuove case, ma per far chiarezza nella travagliata vicenda della ri-costruzione della città. Ciascuno trovi il senso che crede. Personalmente, propendo per il banalissimo: chi fa da sé fa per tre. Ovvero, i “compagni” dell’assemblea cittadina potrebbero anche saper far meglio dei cinque esperti “stranieri” chiamati da Chiodi-Cialente-Fontana a consulto per il 26 Luglio cioè, dopo oltre 15 mesi dal sisma.
E potrebbe essere Una sfida con o senza frontiere.
venerdì 18 giugno 2010
Una vita spericolata. A L'Aquila non più scriteriata, insensata, sconsiderata.
Ognuno a rincorrere i suoi guai.Ognuno con il suo viaggio. Ognuno diverso. E ognuno in fondo perso. Dentro i cazzi suoi.
Per quanto vorrei una vita maleducata, una vita che se ne frega, di quelle che non dormo mai?
Chiederselo, prima, stando nelle tendopoli o negli alberghi sulla costa, all’esterno della città, della Provincia e della Regione. Domandarselo, tuttora. In 25.664, stando in autonoma sistemazione. In 3.484, rimanendo in strutture ricettive: - 2.081 in provincia de L’Aquila; - 925 in quella di Pescara; in 86 nell’intorno di Chieti; - in 359 nel land di Teramo; - in 33 fuori Regione. Richiederselo in 614, “trattenuti” in strutture di permanenza temporanea: - in 501 nella Caserma della Guardia di Finanza; - in 113 nella Caserma Campomizzi. Interrogarsi in 18.647 permanendo in case antisismiche od in affitto: - in 14.483 nelle case costruite dal Dipartimento della Protezione Civile nei 19 C.A.S.E., dispersi in aree inedificate, anche protette o con altra destinazione urbanistica; - in 2.092 nei Moduli Abitativi Provvisori (o casette di legno) donate od, alla fin fine, accettate da Bertolaso anche nel comune de L’Aquila e nelle sue frazioni; - in 1.072 nelle abitazioni con pigione concordata. Tutto verificabile a questa fonte.
Esigere una risposta quando la propria casa è ancora inagibile perché diroccata dal sisma e dall’abbandono alle intemperie. Oppure, quando non può ancora essere riparata per il fatto che non so: burocrazia, normativa, politica economica, sfiga perenne. Se fortunatamente sono in grado di lavorare. Se in pensione. Se disoccupato. Se giovane: non a bere del whisky al Roxy Bar, ma all’Aquilone. Dacché: O forse non ci incontreremo mai. Se non alle “carriolate” domenicali, per rimuovere le macerie dalla “zona rossa”. Vedendo la propria vita non come quelle dei film, ma a mo’ di quella del … “Draquila-L’Italia che trema”. Senza alcuna prospettiva.
Denunciati, irrisi, divisi. Dalla Digos. In molti TG. Dal governo. Un’altra volta: I cittadini abruzzesi non dovranno restituire le tasse, i cui versamenti erano stati sospesi, a partire dal 1° luglio: un emendamento alla manovra economica, infatti, consentirà di sospendere il pagamento, per le popolazioni colpite dal terremoto, fino alla fine dell'anno. Allora, MO’ BASTA: hanno scritto nel blog e nei cartelli che hanno portato in tanti (10mila … 20mila) manifestando per 4 ore sotto il sole, senza intermediazioni di dichiarazioni giornalistiche. Basta con gli slogan, gridavano tutti. Ammesse solo bandiere simbolo della loro città: nero-verdi. Un S.O.S. impresso con lettere cubitali bianche sul verde della collina di Roio. Per far sapere che L’Aquila è esasperata, presa in giro, condannata a morte, da chi pensa e spera che con una comunicazione accuratamente studiata, si possa continuare a sottomettere l’intelligenza delle persone.
I Fede, i Minzolini, i Vespa, i Belpietro, i benpensanti banalizzerebbero, dicendo che volevano solo dei soldi. Non un futuro. Per la loro terra e non solo per i giovani, ma anche per gli anziani. Erano numerosissimi alla manifestazione di Mercoledì 16/6, chiedendo di poter avere una speranza, per non cadere nella disperazione che li sta uccidendo. Dopo 14 mesi.
In eloquenti cartelli, hanno scritto di non voler sparare a nessuno, neppure le “cazzate” dette e fatte da primi ministri e sottosegretari inquisiti, a vario titolo. Rifiutando la vita scriteriata dell’assistito a vita. Disdegnando di continuare a sopravvivere per un decennio e forse più nelle cosiddette case antisismiche che, senza pubbliche attrezzature e nei luoghi mostrati nelle immagini, altro non offrono che una vita insensata. In un cartello retto da due giovani donne, stava scritto “Non si vive solo di C.A.S.E.”, in modo facondo alludendo a quelle progettate e costruite (con 804milioni di Euro) dall’ingegner Gian Michele Calvi e/o ai M.A.P. posati a cura del prof. Bernardo De Bernardinis (spendendo meno di 232milioni di Euro). Ripudiando anche quella sconsiderata alla quale verrebbe condannato a vivere chiunque s’arrangiasse per proprio conto ad edificare ogni tipo di manufatto abitativo, produttivo, commerciale, direzionale su ogni porzione di suolo ancora libero.
Senza regole e senza contributi. Poiché tutto deve essere in deroga. Giacché i soldi pubblici servono per realizzare altre opere faraoniche quanto inutili, come il “Ponte dello Stretto”. Senza un’idea di città, purtroppo anche per gli amministratori locali. Per non ricostruire i borghi di antica formazione, la periferia ed il centro storico de L’Aquila.
Allora, se dalle suonerie dei cellulari degli Aquilani scompare quella dove s’ode “VOGLIO UNA VITA COME STEVE MCQUEEN”, vorrei che alle orecchie di tanti “diversamente udenti” arrivasse, a tutto volume, l’audio di questo filmato. Ed a tanti “diversamente vedenti” il Volantino-Comunicato che qui appare, a cura del Comitato 3e32.
venerdì 2 aprile 2010
Una pagina davvero bella di Giusi Pitari
No, no, no! Via, via via!
Un anno, già un anno, solo un anno.
Come in un rewind rivedo tutto, risento tutto, rivedo i visi, le immagini, di chi non c’è più. Uno alla volta.
E ancora una volta dopo un anno mi dico: io ci sono. Ci sono ancora. A vivere una vita diversa, una vita difficile, una vita senza più quelle persone.
Una vita senza la città, i borghi, le abitudini, la bellezza.
A ripercorrere tutto quanto si è vissuto in questi 365 giorni, ci si confonde. Si accavallano giorni, serate, lacrime e paura.
L’urlo e le urla. Le troppe vittime.
Le notti insonni, il silenzio, il buio; senza compagnia, se non le persone che hai voluto strette a te: la famiglia.
Le tende, i set cinematografici.
Via XX Settembre. Campo di Fossa. Via D’Annunzio. Onna. Sant’Eusanio. Tempera…
La strada del G8. Il sibilo del Predator.
Chi non ce l’ha fatta ed è morto di crepacuore: tanti, troppi.
Chi ci ha aiutato, davvero.
Ora a distanza di un anno ci sentiamo come dei sopravvissuti. Come se un’epidemia fosse passata sul nostro territorio e avesse ucciso e distrutto. Un’epidemia che ci ha tolto i nostri cari, giovani, bambini, anziani. Un’epidemia che ci ha costretto ad una “quarantena” lunghissima, dividendoci, più di quanto già non fossimo. Un’epidemia che ci ha tolto la partecipazione, che ci ha resi dipendenti, da tutto.
Ricordo come se fosse ieri quando, l’estate scorsa, di sera, giravo in automobile in cerca di qualcuno. E tutti quei palazzi al buio, che ne nascondeva anche le crepe, si stagliavano alti e vuoti e sembravano dire: chi tornerà mai qui? Qui, dove non dovevamo essere costruiti.
E ancora, da lontano, il centro: buio. Qualche notte la luna disegnava i contorni nuovi di cupole e campanili morsicati e sorretti da tutori.
Oggi sono ancora vuoti i palazzi delle periferie, il centro abbandonato.
Giorni fa sono entrata a Palazzo Carli e, come mi capita spesso, in un attimo che sembrava non finire mai, mi è scorsa nella mente tutta la mia vita. Quando salivo le scale di quel palazzo da studente fuori sede; anni dopo le salii per firmare il mio contratto di lavoro e dopo ancora, la fine marzo del 2009, quando le risalii per l’ultima volta. Scale piene di studenti, strade piene di studenti, case piene di studenti, locali pieni di studenti, cinema pieni di studenti, teatri pieni di studenti.
Il silenzio ancora viene in mente, di tanta gente incredula con una fiammella di dolore e speranza: era il 6 di luglio 2009.
Il silenzio delle case, delle vie, e anche dei nuovi quartieri.
E poi i rumori di migliaia di camion; tanta gente nuova, che prendeva in consegna la città per costruire nuovi luoghi, lontani e perfetti. Senza anima.
E ancora il rumore degli elicotteri, tuttora padroni del nostro cielo.
E poi l’incontro col centro storico martoriato. Quel pezzetto di anima regalatoci e mai allargato. Le transenne, pesanti come pietre.
Le assemblee cittadine, gli aperitivi autogestiti del giovedì sera in Piazza Duomo, le manifestazioni, vani tentativi di essere ancora una comunità.
E poi il web, la nostra piazza: qui camper, a voi tendopoli. Qui Cese a voi Paganica. Qui Coppito, a voi Pineto.
Il Capodanno: migliaia di persone al Piazzale di Collemaggio, con un tempo infame, insieme senza alcun perché.
Dopo un anno i sopravvissuti si trovano a dover curare ciò che è ancora in vita, anche se malato, gravemente malato: la città, i monumenti, gli antichi borghi, il lavoro, la cultura, la storia, le anime.
Sì, proprio così. Dopo un anno ci sentiamo come dopo un uragano. Che ha scombussolato tutto. E non parlo solo del tremore della terra, ma di tutto ciò che ci ritroviamo e non ritroviamo dopo un anno.
Un lavorio assurdo questi mesi ha fatto pensare, persino a molti di noi, che una volta tornati gli aquilani avrebbero dovuto occuparsi solo di qualcosa. Invece qui c’è tutto da fare, ancora. Le nostre case, i nostri centri storici, il lavoro, il commercio, un progetto vero che comprenda ormai anche tutte le New Town.
Ecco, viviamo tutti in una NO TOWN. Un agglomerato che ci rende altro da quello che dovremmo essere: ancora cittadini. I cittadini vivono in una città e noi invece non l’abbiamo.
Non abbiamo lavoro, non abbiamo piazze, non abbiamo i nostri studenti per le strade, non abbiamo strade, giardini, campi sportivi, vetrine, la nostra storia.
Ci guardano dall’alto, ancora innevati, il Gran Sasso, più in là il Sirente, lontano la Maiella e imperterrito il Monte Cagno.
Le nostre montagne. Cammino e cammino: ancora L’Aquila nella mente. Vedo Paganica, San Gregorio, Castelnuovo e non riesco a rimetterle in piedi, ad immaginare la vita di tutti noi sopravvissuti.
Ma quando ultimamente abbiamo preso ad incontrarci, a Piazza Duomo, scopriamo che viviamo tutti nello stesso modo, che ci capiamo, solo con uno sguardo. La nostra città ci ha chiamato e noi stiamo cercando di rispondere. Con tutte le contraddizioni, vedute diverse, ma con la stessa emozione dentro. Quella che ci ha forzato ad entrare in città, nei paesi, per vederli. E non ci siamo spaventati.
La paura. Che strana la paura. Cambia faccia.
Ora ho solo paura di perdere i tanti amici che incontro la domenica, con le carriole.
Il resto si farà.
http://www.6aprile2009.it/?p=11053#more-11053
martedì 16 marzo 2010
CHE COS’È UNA C.A.S.A. SENZA UNA CITTÀ ?!
Infatti, dobbiamo considerare che un insieme di quattro o venti edifici residenziali non costituisce una città, tuttalpiù una semplice lottizzazione. Non osando più chiamarle “new town”, le hanno denominate semplicemente “C.A.S.E.”, onde poter facilmente equivocare con “case” o per poterne camuffare l’impropria nomea estesa di Complessi Antisismici Sostenibili & Ecocompatibili.
Comunque si intenda denominarle, queste lottizzazioni residenziali sono abusive sia perché “legittimate” solo da “ordinanze” d’emergenza sia per tre diverse ragioni tecniche:
- a) perché prevalentemente ricadenti in aree a destinazione urbanistica “agricola” o riservata a “servizi generali”, quindi per usi non residenziali;
- b) per via dell’utilizzo di tipologie edilizie (case plurifamiliari in linea a tre piani, su piattaforme antisismiche abnormi) che generalmente risultano in contrasto con il contesto ambientale ed edilizio circostante;
- c) per la mancata realizzazione o “monetizzazione” di tutte le opere d’urbanizzazione secondaria (servizi e pubbliche attrezzature, ovvero asili nido, scuole materne, scuole dell’obbligo, biblioteche, chiese, ambulatori, campi gioco e sport, mercati di quartiere, ecc.) che, per legge, sono indispensabili e non differibili tanto quanto le opere di urbanizzazione primaria (strade veicolari e pedonali, parcheggi, reti di adduzione dell’acqua e dell’energia, l’illuminazione, fognature, impianti di smaltimento dei rifiuti, ecc.).
Sul piano formale, già il TAR ha considerato che la semplice urgenza d’edificare, quand’anche legata ad una emergenza oggettiva, non giustifica il ricorso sistematico ad una procedura in deroga alla normativa vigente di carattere sociale, ambientale, urbanistico. Forse, quello che è stato provato per la “new town” sicula sarà riproposto anche per le recenti 19 sorelle abruzzesi. Tuttavia, sarà arduo contraddire il giudizio finale di Sua Emittenza su “quell’autentico miracolo che abbiamo realizzato a L’Aquila: un’impresa straordinaria che i maggiori urbanisti internazionali considerano un modello per il mondo intero”. Non tanto perché gli urbanisti, che difficilmente sono come certi direttori di giornali e di telegiornali, non confermeranno una tal menzogna, ma perché leggi “ad eventum” potrebbero aver reso solo più difficile un ricorso d’illegittimità amministrativa.
Sul piano sostanziale, invece tutta l’argomentazione è assai più facilmente sostenibile. Anzi, almeno su due punti, è già stata sostenuta dall’antropologo Antonello Ciccozzi, con arguzia e coraggio, in numerosi testi. In quello più recente, si prova anche come tale operazione urbanistica costituisca, “ipso facto, un esempio di corruzione che vede coinvolto il sistema della Protezione Civile in concussione con l’amministrazione locale aquilana, con l’appoggio di una imponente propaganda mediatica, e tra lo stordimento, la troppa distrazione o il silenzio-assenso dei comitati e della società civile in generale riguardo il connotato della localizzazione di tale progetto”. Condivido interamente il discorso del docente di antropologia culturale all’UNIVAQ e, nel raccomandarne l’acquisizione diretta, non riporto altre parti solo per non banalizzarle. Sulla terza questione invece, conviene aggiungere quanto segue.
Se la residenza (l’insieme delle case) è condizione necessaria ed indispensabile perché esista la città, fin da “quando l’insediamento era ridotto ad un castello, ad una rocca, ad un monastero e le popolazioni vivevano nelle campagne, sparse e senza collegamento alcuno, il concetto di città era in crisi profonda o addirittura non si rilevava l’esistenza della città”. [Carlo Bassi] La residenza costituisce un dato fondamentale nella concezione stessa della città e l’area destinata a questa funzione può anche condizionare la forma stessa dell’insediamento urbano. Tuttavia, la residenza, ovvero l’organizzazione urbana in funzione dell’abitare, non determina e non caratterizza la città. Solo i cosiddetti “monumenti” sono in grado di conferire all’aggregato urbano un senso distintivo ed essenziale. Perciò, gli elementi “primari” che hanno funzionato, ed ancora funzionano come cellule di aggregazione tanto della comunità quanto delle altre parti edificate e funzionali di tale aggregato, sono l’âme de la cité [G. Chabot].
Dopo undici mesi, a L’aquila, l’anima della città è ingombra dalle macerie ma non è morta. Ai cittadini sparsi forzatamente nei C.A.S.E. in alberghi, nelle caserme e nelle “autonome sistemazioni”, domenica mattina è arrivato un sms in dialetto: "te sci rizzatu? Stengo ecco da na frega d'anni, ma se oggi non ve', scendo da sto piedistallo e me ne vajo. Rizza gli amici, piglia la carriola. L'Aquila è la te". Ma, la statua di Sallustio, che campeggia sulla piazza, è poi rimasta ad osservare compiaciuta in quanti sono accorsi gioiosi ed operosi a ripulire la piazza affinché la vita della città riprendesse.
Realmente, forse miracolosamente. Con continuità. Accorreranno ogni domenica e poiché ci si domanda: “Che cos’è una città senza una politica ?!”, dalla prossima, ci sarà anche uno spazio di discussione aperto a tutta la cittadinanza, “per individuare una mappa dei bisogni e le priorità dalle quali partire”. Si chiamerà: "L'Aquila anno 1. Spazi aperti per un'agenda dei bisogni". Anna (Miss Kappa) dice: "Qui non si scherza: stiamo attuando la vera democrazia dal basso."
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lunedì 28 dicembre 2009
a) cantiere di Roio Poggio - camera 2 - 23/12/2009 11:27
b) planimetria del Piano Particolareggiato della Protezione civile denominato Roio Poggio
giovedì 3 dicembre 2009
sette new town per sette frazioni
il nuovo C.A.S.E. a Camarda
il "nuovo" ed il "vecchio" Camarda.
Tutto era pronto: il nastro tricolore e le transenne per le telecamere, anche gli elicotteri avevano effettuato i sopralluoghi. Tutto era adeguatamente predisposto per l'ennesima replica della cerimonia di consegna degli alloggi delle sue case in uno dei suoi C.A.S.E.. I primi a salutarlo dovevano essere proprio alcune degli sfollati che, negli tende o negli alberghi della costa, hanno atteso per più di sette mesi l'evento. Nessuna avvisaglia di contestazione, anzi. All'inizio della salita che porta al nuovo villaggio, i residenti del nucleo di antica formazione avevano messo anche uno striscione bianco: "Camarda vi dà il benvenuto". Era per i nuovi vicini di casa, ma - dicono - che la piccola comunità della frazione de L'Aquila avrebbe voluto dedicare analoca accoglienza a Silvio Berlusconi. Come a Bazzano, nel giorno del 73° compleanno. Come a Cese di Preturo, qualche settimana dopo. Stavolta, un piccolo quadro raffigurante la fontana del Treo, simbolo del borgo di Camarda, sarebbe stato donato al presidente del Consiglio che non è andato alla festa, solo per motivi istituzionali.
Nell'attesa, telecamere e digitali hanno registrato i fuori onda che mostriamo, sperando che ... stia quieto ..., non ci nomi comunisti e ci permetta ancora di segnalare quanto ha fatto per la ri-costruzione, sebbene con una spatuzza-di-damocle sul coronato capo.
Benché con un punto diverso da quello quasi corale, che ostenta solo lodi a chi cerca soltanto lodi per sé e per altri tre, palesiamo questo suo fare miracoloso anche nelle schede illustrative delle sette new town per le sette frazioni de L'Aquila: Arischia, Assergi2, Bazzano, Cese di Preturo, Collebrincioni, Coppito2. Altro, sulle restanti dodici, prossimamente cercheremo d'esporre qui.
- le prime due foto sono di Paolo Baglioni che, nel suo campo è bravo quanto il Claudio; la terza, invece è stata carpita dal sito del Consorzio Forcase e già messa in prima pagina in qualità di "mostro" da chi tale lo vede sul piano ecologico ed ambientale.