martedì 20 luglio 2010

La realtà de L'Aquila vien così descritta da Giustino Parisse:

- una periferia caotica nata negli anni scorsi a colpi di varianti al piano regolatore,

- le 19 aree del piano Case costruite nel periodo dell'emergenza,

- migliaia di map,

- centinaia di casette "private" (spesso villette) sorte come i funghi in base a una semplice autorizzazione,

- case dello studente che vengono costruite qua e là senza apparente criterio,

- la volontà dell'università di mantenere più "poli" (Roio, Coppito, centro storico), e poi una miriade di iniziative che si stanno realizzando senza una idea di fondo capace di guardare a una strategia di medio e lungo termine.

Una città da ricostruire e da ridisegnare. E Chiodi-Cialente-Fontana che fanno? Per il 26 Luglio (dopo 15 mesi dal sisma), all'auditorium di Palazzo Silone, invitano a parlarne un pool di esperti: Vittorio Magnago Lampugnani (urbanista), Cesare Trevisan (infrastrutture), Paolo Leon (economista) ed Aldo Bonomi (sociologo). A settembre arriverà anche il portoghese Alvaro Siza y Vieira (architetto).

Fantastico. Speriamo non sia l'ennesimo specchietto per le allodole. Tuttavia, AMARCORD che:

A Chartres, due incidenti disastrosi nel 1030 e nel 1194 avevano reso completamente inservibile la cattedrale romanica. La nuova venne edificata da un ignoto architetto, sui tracciati dell’antico santuario per conservarne scrupolosamente la memoria ma in forma, concezione e tecnologia completamente aderenti al tempo. Forse la presenza del soprannaturale o, più probabilmente, una serie di fatti contingenti hanno permesso l’edificazione di questa “casa della Vergine” come la più rappresentativa del gotico ed in piena corrispondenza delle aspirazioni e delle capacità operative d’una comunità. Ebbe le coperture ad altezze mai raggiunte sino ad allora, la luminosità di nessun’altra chiesa, la pietra per la costruzione (proveniente da una cava miracolosamente scoperta vicino alla città) magnifica di colore e di consistenza. Con tutte le parti dell’organismo proporzionate “secondo la vera misura”. Con leggi oggettivamente valide, in aderenza stretta alla metafisica medievale che concepiva la bellezza come lo splendor veritatis. Infatti, proprio l’alzato della cattedrale di Chartres (per Von Simson) è la suprema dimostrazione di questa “filosofia della bellezza”.
Fu realizzata in soli 25 anni da operai specializzati chiamati compagnons, riuniti in confraternite. Ma tutti gli abitanti del borgo vi parteciparono con l’apporto d’ogni mezzo cognitivo, pecuniario e materiale disponibili.

A Milano, la travagliata costruzione del Duomo (dedicato a Santa Maria Nascente) appare ben documentata ed autorevolmente criticata nel racconto di Cesare Brandi, in “Disegno dell’Architettura italiana” (Einaudi).
La cattedrale sorse, per volere dell'arcivescovo Antonio da Saluzzo e di Gian Galeazzo Visconti, secondo un disegno d’un architetto straniero, o alsaziano o tedesco. La pianta era tardo-gotica, d’ispirazione renano-boema (Colonia, St-Vito a Praga). I lavori di costruzione iniziarono nel 1386. Simone da Orsenigo ed altri maestri lombardi, dal 1388, curarono l’edificazione dei muri perimetrali. Bensì, già nel 1389, avendo perso fiducia nei capomastri all’opera, le autorità preposte iniziarono a consultare esperti “stranieri” per discutere della capacità portante d’un pilastro e/o dello spessore d’un contrafforte e si trovarono impantanati in argomentazioni sulle proporzioni del corpo umano, ovvero su quelle dell’erigendo edificio. Inizialmente, da Parigi, intervenne Nicolas de Bonaventure per determinare la forma idonea alla sezione orizzontale dei pilastri e per i profili delle basi, delle finestre e delle porte. Dopo un solo anno il parigino lasciò il cantiere e, da Bologna, intervenne il capomastro di San Petronio: Antonio di Vicenzo che apportò una variante al numero di campate del transetto. Altri successivi cambiamenti denotano il clima di tensione (o di scoperta ostilità) tra le maestranze lombarde ed i direttori d’opera, soprattutto se provenienti dai cantieri francesi e tedeschi omologati al gotico. Al conseguente rallentamento dei lavori, contribuì altresì il dilagare della diatriba sulle proporzioni dell’edificio. Alcuni, volendo la costruzione ad quadratun, immaginavano l’intera sezione trasversale inscritta in un quadrato: in pratica, l’altezza dell’edificio pari alla larghezza totale. Altri disputavano per un profilo ad triangulum. Fu allora chiamato da Colonia Maestro Giovanni da Fernach, che declinò l’incarico. Anche Ulrich von Ensingen da Ulm rifiutò. Invece, accettò Gabriele Stornaloco, un matematico di Piacenza che soggiornò a Milano rimuginandoci su per dieci giorni. Tornato a Piacenza, inviò le sue proposte che furono ben accolte dalle autorità, ma scatenarono la riprovazione degli esponenti del “partito” avverso e, pertanto, fu ravvisata la necessità d’un nuovo giudizio. Ad esprimerlo fu Heinrich Parler di Gmünden che arrivò da Ulm nel 1391. Sostenne esser necessario tornare alla costruzione ad quadratum. Ma i meneghini non intendevano regredire dal triangolo dello Stornaloco alla costruzione al quadrato che in definitiva alzava ancor più il culmine del tetto. Gli ambrosiani (per gusto italico) preferivano proporzioni più tarchiate e volevano che l’altezza della chiesa fosse in rapporto alla sua larghezza totale come l’altezza e la base d’un triangolo equilatero. Poiché la larghezza della chiesa era ormai fissata, l’altezza doveva essere pari a 82,5 braccia. Quando, gli affezionati delle proporzioni ad quadratum propugnavano per le 90 braccia. Così il Parler fu rimandato a casa. Nel 1395, nella disputa vennero coinvolti altri due stranieri: Giovanni Mignot di Parigi e Giacomo Cova di Bruges. Dovendo costruire le volte, il Mignot intendeva seguitare nella pratica acquisita nei cantieri francesi che era già considerata “astrusa” da chi difendeva la logica delle proporzioni di Vitruvio. Secondo il francese la Fabbrica del duomo sarebbe presto irrimediabilmente crollata perché “lavoranti di serizzo”, pittori, “fabbricanti di guanti e carpentieri” s’erano elevati al rango d’ingegneri. Perciò, rimproverando agli italiani la mancanza di cognizioni statiche, Mignot sentenziò: “Ars sine scientia nihil est”. Ed i milanesi rifacendosi ad Aristotele (ed alle sue teorie sulla meccanica) risposero: “scientia est unum et ars est aliud”. Infine, assai irritati per esser stati trattati di ignoramuses, rispedirono il Mignot a Parigi a dubitare se l’architettura gotica potesse essere considerata solo dal punto di vista delle proporzioni delle membrature, ignorando ogni altro significato connesso ad una costruzione “diafana” (o permeabile alla lux mirabilis: la luce fisica caricata di significati metafisici). Tuttavia, mal fecero dacché arrivarono a “camuffare” da gotica una costruzione che voleva salvaguardare la tradizione italiana e nel contempo prestare attenzione al linguaggio che dall’Ile-de-France era dilagato in tutti i territori soggetti alla “globalizzazione” di quel tempo.

A L’Aquila, queste vicende non desterebbero interesse alcuno se non si considerasse necessario trarne una morale esplicativa d’odierni avvenimenti significativi. Giammai nel costruire nuove chiese dopo le nuove case, ma per far chiarezza nella travagliata vicenda della ri-costruzione della città. Ciascuno trovi il senso che crede. Personalmente, propendo per il banalissimo: chi fa da sé fa per tre. Ovvero, i “compagni” dell’assemblea cittadina potrebbero anche saper far meglio dei cinque esperti “stranieri” chiamati da Chiodi-Cialente-Fontana a consulto per il 26 Luglio cioè, dopo oltre 15 mesi dal sisma.

E potrebbe essere Una sfida con o senza frontiere.

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